Fosco Maraini, reporter d’altri mondi
- Giorgia
- 23 mar
- Tempo di lettura: 3 min

il capodanno del 1937. Fosco Maraini è un venticinquenne fissato con lo sci. Si trova a Misurina, sulle Dolomiti, e si sta allacciando gli scarponi quando l’occhio gli cade sul foglio di giornale che aveva usato per incartarli. Un annuncio spiegazzato avverte che il professor Giuseppe Tucci sta partendo per una spedizione di ricerca in Tibet, alla scoperta di religioni, storia e archeologia di quel paese lontano a lungo rimasto chiuso agli stranieri. Maraini molla gli scarponi, afferra penna e calamaio e scrive una lettera a Tucci, proponendosi come fotografo (la fotografia, oltre agli sci, è un’altra sua fissazione). È fortunato: Tucci non sa dove come si adoperi una macchina fotografica, e il suo solito compagno d’avventura, il capitano Ghersi della Regia Marina, è impegnato altrove. Maraini ottiene l’incarico, e si prepara per un viaggio che, forse appena lo sospetta, gli cambierà la vita. Da allora sarà sospinto da una tensione all’avventura che non si attenuerà mai, “una curiosità di vedere” che ha avuto però un avvio “casuale in modo incredibile”.
Tucci dal Tibet riporterà indietro un gran numero di manoscritti inestimabili a testimonianza di quanto orizzonte – religioso, storico, artistico – c’era ancora da svelare all’Occidente. Io quei manoscritti li ho osservati spesso, erano conservati in un fondo apposito dell’IsMEO, l’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente fondato proprio da Tucci con Giovanni Gentile nel 1933, poi diventato IsIAO (Istituto Italiano per L’Africa e l’Oriente) una volta fusosi con l’IIA, Istituto Italiano per l’Africa, e infine chiuso in liquidazione coatta amministrativa nel 2012. Ci ero finita mentre ancora studiavo alla Sapienza e mi specializzavo in arte dell’Estremo Oriente. Un lavoro all’IsIAO sembrava un sogno orientalista, eppure ero riuscita a entrare. Per anni ho lavorato nella redazione, litigando con i minuscoli caratteri del vocabolario di lingua cinese che poi pubblicammo, e nella scuola di lingue orientali che è stata per un po’ a viale Manzoni a Roma, muro a muro con il Museo storico della Liberazione. Il Museo nasce a via Tasso negli appartamenti utilizzati dalle SS sotto il comando dell’obersturmbannführer Kappler come luogo di reclusione e tortura per circa duemila antifascisti. La voce di corridoio riportava che anche i locali della scuola fossero stati usati dai nazisti, e soprattutto dai loro informatori che salivano per una tromba di scale nascosta: la stessa che percorrevo io tutti i giorni. La sede principale dell’Istituto per l’Africa e l’Estremo Oriente, e quindi anche dei manoscritti tibetani, fu per anni un palazzetto storico a via Aldrovandi, che aveva un portone di legno su strada e un accesso privato direttamente dal Bioparco, proprio accanto alle gabbie in cui nutrivano i leoni. Dagli uffici si sentivano ruggire i grossi felini a orari regolari. Una volta tirammo fuori dalla biblioteca i manoscritti per mostrarli a Gianni Alemanno, all’epoca sindaco di Roma, in visita. Io ero incaricata di fare le foto.
Alla fine, due anni prima del crollo, me ne sono andata; i manoscritti sono finiti ora tra le collezioni orientali della Biblioteca Nazionale.
Anche io che rincorro Maraini parto dalle montagne. È a Lugano, in Svizzera, che comincio, da una villa dal suggestivo nome di Malpensata, incardinata com’è su un costone che si getta nel lago. Ospita il Museo delle culture che per circa sette mesi ha allestito una collezione delle fotografie di Fosco Maraini nella retrospettiva L’immagine dell’empresente, in occasione dei vent’anni dalla sua morte.La fotografia che apre al visitatore l’esposizione mostra due bambini che corrono in un paesaggio sconfinato, la via carovaniera sul lago Bham in Tibet. Maraini l’ha scattata in quel primo viaggio con Tucci nel settembre del 1937.
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