La sacra simmetria del monte Fuji
- Giorgia
- 22 set
- Tempo di lettura: 5 min

Il treno ad alta velocità Shinkansen sfreccia sui binari lungo la via del Tokaido, l’antica strada che collega Tokyo a Kyoto. A un tratto, tutti i passeggeri si voltano dallo stesso lato, chi sonnecchia si sveglia, i disattenti e i turisti al primo viaggio vengono avvisati: nel finestrino ora apparirà la sagoma azzurrina e inconfondibile del monte Fuji. «La linea semplice che contiene il tutto, la salvezza» per Nikos Kazantzakis che arriva in Giappone nel 1935. Lo scrittore greco percorre in treno quella tratta e con autentica meraviglia si attacca, naso in su, al finestrino del treno.
LA LINEA SIMMETRICA del vulcano, innevato in cima per molti mesi all’anno, è uno dei simboli del paese: riprodotta su bicchieri, magliette, borse, plasmata nella ceramica dei portaincensi e delle tazze per il tè, quell’immagine è tra le più ambite da chiunque attraversi il Giappone con una macchina fotografica. Nella città di Kawaguchiko, che si snoda sulle pendici settentrionali della montagna, sorge un minimarket Lawson assediato dai turisti; è stato infatti costruito nel punto da cui scattare foto perfette del monte Fuji, tanto che i visitatori arrivavano a ondate e ostruivano l’entrata di quello e dei negozi vicini, i marciapiedi e perfino la strada. Per evitare incidenti, nel 2024 è stata montata una barriera per impedirne la vista, e così i visitatori sono diminuiti, tranne qualche coraggioso che praticando un piccolo foro nei pannelli ha continuato a contemplare la vetta più famosa del paese.
Il monte Fuji è ritratto in centinaia di opere, ma i due artisti che l’hanno inscritto per sempre nel nostro immaginario sono forse Hokusai e Hiroshige. Il primo con le celebri Trentasei vedute del monte Fuji a cui sono seguite le Cento vedute del monte Fuji, l’altro con la sua versione delle Trentasei vedute del monte Fuji.
LA XILOGRAFIA ukiyoe più famosa al mondo, La grande onda di Kanagawa, fa parte proprio della serie di Hokusai, in cui il mare, alto sopra l’orizzonte e adornato di barchette in balìa della corrente, abbraccia un Fuji sullo sfondo che diventa il punto di fuga dello sguardo di chi osserva.
«Questa montagna è il vero dio progenitore, che ha formato i giapponesi a sua immagine e somiglianza», scrive ancora Kazantzakis, e dalle radici di questo vulcano, ormai in sonno da molto tempo, si sono in effetti propagate leggende, dèi, favole e fantasmi. Diceva Fosco Maraini che il Fuji è uno di quei punti focali della natura «in cui le cose si sollevano a dignità di persona; le sue bellezze si rivelano infinite; ogni panorama, ogni ora, ogni luce ha la propria».
OLTRE ALLA BELLEZZA minerale e geologica della montagna, vi si cela dunque un incanto magico, nascosto nel segreto di questa roccia che un tempo, quando ancora sputava fuoco e lapilli, ha accolto i primi progenitori dei giapponesi di oggi. Di certo, era opera di un qualche kami o divinità: e così il monte Fuji si rinsalda nel folklore come la casa di Konohanasakuya-hime, la dea delle montagne e dei vulcani, la cui immagine è legata al fiore di ciliegio che in primavera riempie di bianco e rosa i fianchi del monte. Insomma, il Fuji si impone sull’ideale estetico del Giappone così come la sua mole sull’orizzonte. Ma come tutti i vulcani, anche se addormentato, il Fuji ha due anime: quella celestiale, visibile a occhio nudo nella sua forma conica che si staglia contro il cielo, e quella infernale nascosta al suo interno. Trattandosi di un vulcano spento, non offre spettacoli pirotecnici di lampi e boati, non si odono esplosioni, nulla s’accende. Al suo centro custodisce una gelida voragine, nuda e inospitale con pareti dritte e scure, certo il luogo ideale per un cenacolo di demoni.
È circondata di piccoli sassi, portati là da scalatori e pellegrini nel corso dei secoli. Secondo un’antica leggenda, le anime dei bambini morti hanno il doloroso compito di riempire di sassi e rocce il Sai-no-Kawara, una sorta di Stige buddhista, per creare dei piccoli monumenti stupa, che ogni notte i demoni buttano giù con indifferenza. E i pellegrini che passano per quelle strade lasciano una pietra, per aiutare queste piccole anime nella loro sisifea fatica.
C’È UNA FRASE, in Yamanba, una delle opere del teatro No composta da Zeami Motokiyo, che ha una suggestione rituale e dice pressappoco «montagna dopo montagna», quasi un mantra, in giapponese suona come yama mata yama. Rappresenta la yamanba, la donna della montagna in Giappone, la strega che vaga di monte in monte oltrepassando cime e valli senza fermarsi mai. I suoi sono gli unici piedi femminili a calcare quei sentieri scoscesi. «Il monte è tempio, e i templi hanno forma di monti», scrive Paolo Pecere in Il senso della natura. Per shintoisti e buddhisti la montagna è dimora degli dèi, terra sacra, in cui niente di impuro può mettere piede.
Il Fuji è considerato sacro fin dalla notte dei tempi, e per non turbare il divino che vi risiede, alle donne ne è impedito l’accesso. Nessuna pista per loro, nessuna escursione. Tale divieto resterà in vigore fino al 1872, quando con un editto imperiale finalmente si dichiara abolita qualunque pratica di esclusione femminile dai luoghi sacri. Le donne tuttavia scalavano lo stesso, e per farlo si vestivano da uomini. La prima di cui si ha traccia nei documenti ufficiali è Takayama Tatsu che nel 1832 raggiunge la sommità, in barba ai divieti. Forse una yamanba incarnata.
Ma i vecchi templi e santuari, di cui pure il Fuji è pieno, lasciano ora spazio ai nuovi riti del turismo. Da pochi giorni è riaperta la stagione delle escursioni sul vulcano giapponese, che va da luglio a settembre in giorni che cambiano a seconda della parete di partenza.
La scalata fuori stagione è sconsigliata, pericolosa. Eppure, uno studente ventisettenne è stato già recuperato due volte nella stessa settimana: arrivato a oltre tremila metri sul sentiero Fujinomiya, non è più riuscito a scendere ed è stato riportato giù dalle squadre di soccorso. Qualche giorno dopo è ritornato sulla cima: aveva lasciato cadere il telefono sulla pista, purtroppo però ha accusato dei malori dovuti all’altitudine. È stato di nuovo recuperato e portato in salvo, non senza polemiche.
DURANTE I TRE MESI ESTIVI, più di duecentomila persone scalano la montagna più famosa del Giappone. «Le alte montagne sono un sentimento», dice Lord Byron, e richiamano migliaia di viaggiatori che cercano la beatitudine in quota, quasi un riflesso del cielo. Ma camminare passo dopo passo sulle piste tracciate presenta anche i suoi incerti. Già soltanto il Fujisawa – «un pericoloso torrentaccio che nasce dal vulcano» nelle parole di Maraini – è stato un ostacolo da attraversare per i viaggiatori di ogni tempo.
Di monte Fuji, insomma, si può anche morire. Come capita a Akio, in Maschere di donna di Enchi Fumiko, scomparso sotto a una valanga. Ecco perché alla montagna è demandata la decisione ultima sulla vita, il suo compiersi nell’atto finale. La parola è obasute, che in giapponese vuol dire «abbandonare una donna anziana», e racconta di un tempo in cui le persone anziane, per non gravare sulla famiglia e il villaggio, venivano accompagnate a morire sui monti. Un’usanza antica e forse mai davvero messa in pratica, che pure ha suggestionato letteratura e teatro, di cui si fa cantore Fukazawa Shichiro con il suo Le ballate di Narayama, che comincia proprio così: «Montagne che si susseguono a montagne», ancora una volta yama mata yama.
Questo articolo è stato pubblicato sul manifesto, qui.











Commenti