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Il silenzio di una fiorista giapponese e il vuoto delle convenzioni

  • Giorgia
  • 18 ago
  • Tempo di lettura: 3 min
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Sayuki è una donna giapponese che vive in Italia, dove si è sposata con l’italiano Vittorio e ha aperto un negozio di fiori. Le sue composizioni seguono non soltanto lo hanakotoba, il linguaggio dei fiori e della stagionalità secondo l’uso giapponese, ma anche un suo certo gusto personale sui colori, i profumi e le suggestioni che il mondo vegetale riesce a comunicare, insomma il caro vecchio «dillo con un fiore».

FRANCESCA SCOTTI, in Nessuno conosce Sayuki (Bompiani, pp. 171, euro 16), mette questa donna al centro del romanzo, a riempire la scena, anche se non parla mai. I suoi gesti ce la descrivono, quando la sua voce ci è celata. I suoi pensieri sono narrati dalla millimetrica descrizione dei movimenti, in casa, sotto la pioggia, o nel maneggiare rami e foglie. Le sue sensazioni affiorano attraverso spighe verdi di amaranto, anemoni dischiusi, dalie e cartami. I fiori parlano per lei, e dicono «non ti fidare, non del tutto. Rimani attenta».


Perché Sayuki è in un momento fatidico della sua vita: ha deciso di separarsi, e lo fa tranciando via di netto il marito Vittorio e tutta la sua famiglia italiana, come se impugnasse metaforicamente quelle forbici affilate di metallo sabbiato che sono il suo strumento di lavoro quotidiano. Blocca i numeri, non risponde alla porta, non saluta più: il suo è un addio corporeo, un’assenza improvvisa che costringe la cognata Ambra a chiedersi se davvero ha mai conosciuto Sayuki, se sono state, almeno una volta, amiche l’una per l’altra. Allo stesso modo si interroga la suocera, che vedeva nella fiorista giapponese una raffinata nuora, l’invidia delle compagne del tè pomeridiano. Con lei ha un solo canale di comunicazione, un mazzo di rose gialle mandate ogni settimana. Vittorio invece si smarrisce nel lavoro, nelle ore fuori da quella casa che d’un tratto senza Sayuki non riconosce più. Samuele, il giovane cognato, si strugge per un concorso che non sa se passerà e per una verità che ha paura di affrontare.


TUTTI LORO PARLANO di Sayuki, se ne sono fatti un’opinione, ma il dubbio resta: chi è Sayuki, se quest’assenza non corrisponde all’immagine che ne hanno in testa? Finché un giorno arriva per posta un biglietto dal negozio di fiori, che contiene un invito a pranzo nel solito ristorante. Laconico, senza spiegazioni.


Fedele alla massima per cui la natura ha orrore del vuoto, la famiglia di Vittorio si affanna a colmare questa mancanza di parole di Sayuki con le proprie paranoie, le ansie, i piccoli segreti domestici a lungo celati e che nell’oscurità si sono ingigantiti fino a esplodere all’improvviso fra le loro mani. Perché alla fine di questo si tratta: una breve psicosi di cui si convince tutta la famiglia in attesa di una resa dei conti collettiva in cui ciascuno di loro teme di diventare il capro espiatorio.

Il silenzio di Sayuki allora fa da cuore rivelatore di Poe: si impianta su quelle stesse ansie egoriferite dei personaggi e ne diventa cassa di risonanza. Ognuno pensa che Sayuki voglia smascherarlo, e tutti si sentono sotto scacco da se stessi.

Intrecciando un immaginario consueto a innesti giapponesi richiamati dai ricordi d’infanzia della protagonista, Scotti compone il racconto di un vuoto che mette in crisi le identità e i ruoli di una famiglia.

Quasi come se Sayuki si fosse trasformata dalla serafica e tranquilla fiorista all’ingannevole volpe kitsune, dal cui fascino Vittorio, Ambra, Cecilia, Samuele sono stati stregati per poi essere, infine, abbandonati.


articolo pubblicato sul manifesto, qui.

 
 
 

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